Non potevamo esimerci dal ripubblicare il lungo saggio che Walter Tocci (ultimo assessore alla mobilità di Roma degno di questo nome) ha scritto per spiegare la attuale tragicomica e drammatica situazione di Atac. Uno scritto che non risparmia nessuno, che delinea la filiera delle responsabilità, che spiega con dovizia sia le colpe del passato sia le enormi colpe dell'attuale amministrazione fautrice, su un corpaccione moribondo, di un autentico colpo di grazia congegnato con un unico obbiettivo: allisciare il pelo di clientele, pessimi sindacati e bacini di voti. Uno squallore che è sempre stato della politica, ma questa politica che si racconta come nuova e onesta è in realtà molto peggio di chi l'ha preceduta.
Nella speranza di una soluzione onorevole (noi ci auguriamo che il servizio venga messo a regolare bando, come vuole la legge oltre che il buon senso, e che la gestione venga rilevata da Atm: una integrazione tariffaria, grafica, operativa sull'asse Milano-Roma sarebbe di grande sinergia e utilità) vi invitiamo con forza a leggere questo documento. Molto lungo, ma molto utile.
***
La
crisi dell'Atac, le scelte sbagliate e le soluzioni possibili
di Walter
Tocci
Abstract
La
crisi dell'Atac è il principale problema del governo di Roma. Non è
più tempo di pannicelli caldi, occorre una soluzione di sistema: nel
tempo, uscendo dall'emergenza con una strategia di medio termine; nei
contenuti, curando i mali aziendali nel contesto della politica
integrata della mobilità.
Le
cause strutturali del malfunzionamento e le possibili soluzioni si
possono riassumere in tre questioni:
a)
L'inefficienza della gestione crea debito e produce un livello
insufficiente di trasporto. In seguito alle maldestre scelte della
giunta Raggi l'azienda è stata gettata in una procedura fallimentare
ad alto rischio per la città e per i lavoratori. Si poteva evitare -
ed è ancora possibile - decidendo di separare il debito dal
servizio, che è l'unico modo per risolvere entrambi: il primo con
un'operazione finanziaria comunale a lungo termine e il secondo
aprendo alla concorrenza per aumentare l'efficienza. Il ricorso a
gare europee è una scelta utile per i cittadini e quasi obbligata
dalle leggi. In una città normale non ci sarebbe neppure bisogno di
un referendum, invece esso è necessario per rimuovere la decisione
della sindaca di conservare l'attuale monopolio. È però dirimente
come si effettuano le gare: con la privatizzazione si rischia di
cadere dalla padella nella brace passando da un monopolio pubblico a
uno privato. Occorre invece una liberalizzazione che affidi ai
privati solo la produzione mantenendo saldamente in mano pubblica i
caratteri pubblici del servizio, in particolare le linee, le
frequenze e le tariffe.
b)
La rete degli autobus è molto estesa ma poco efficace. Per inseguire
la disordinata espansione urbanistica si sono aggiunti e prolungati
tanti collegamenti a domanda debole e a bassa densità. Questa
struttura diradata comporta costi di gestione elevatissimi e standard
di servizio insufficienti. Occorre un ridisegno radicale basato sulla
specializzazione delle linee: Express, a orario predefinito, con
integrazione al ferro ecc. Nel territorio a bassa densità bisogna
utilizzare le nuove tecnologie per offrire servizi a chiamata su
itinerari flessibili con mezzi di trasporto più piccoli. La riforma
della rete deve essere sostenuta da coraggiose politiche della
mobilità, non solo le corsie preferenziali ma intere strade verdi
dedicate esclusivamente ai mezzi pubblici.
c)
Il deficit di infrastrutture accumulato nel Novecento comporta una
scarsa dotazione di trasporto su ferro e un eccessivo ricorso alla
modalità dell'autobus. Da tanto tempo si è impostata la soluzione
della cura del ferro come integrazione tra diverse modalità di
trasporto: la ristrutturazione e il potenziamento delle ferrovie
regionali; la realizzazione di due nuove metropolitane C e D; il
rilancio del tram in centro e in periferia. Questa strategia è stata
spesso dimenticata o distorta. La nuova amministrazione ne ha ripreso
gli obiettivi tranviari con meritevoli intenzioni, ma anche facili
dimenticanze e alcuni progetti sbagliati, come si vedrà nell'ultima
parte del libretto.
A
differenza di altre città, nel trasporto romano le tre cause
strutturali si presentano con la massima intensità e interagiscono
tra di loro. Per questo motivo in Italia nessun altro bacino di
trasporto pubblico è così tanto costoso e sgradito ai cittadini.
Dovrebbe essere un motivo sufficiente per realizzare una coraggiosa e
lungimirante politica della mobilità.
LE AVVENTURE DELLA GIUNTA
RAGGI
La
crisi dell’Atac viene da lontano e si è aggravata negli ultimi
anni. All’emergenza la giunta Raggi ha risposto con provvedimenti
sbagliati che rischiano di peggiorare il servizio già molto
scadente, di mettere in pericolo la condizione di decine di migliaia
di lavoratori compreso l'indotto e di perdere il controllo del
bilancio comunale.
Esaminiamo
le due delibere approvate a gennaio dal Consiglio Comunale: la
proroga del monopolio Atac oltre la scadenza prevista del dicembre
2019; l'autorizzazione a ricorrere alla procedura fallimentare nella
modalità del concordato preventivo con i creditori.
1.
Con la proroga si conserva il monopolio che è la principale causa
della crisi: l'azienda da diversi anni non è in grado di produrre la
quantità di trasporto che il Comune richiede e finanzia tramite il
contratto di servizio. Il livello della produzione su gomma nel 2017,
come indica il piano industriale, è stato di circa 84 milioni di km,
un dato peggiore di quello del 2016 e
ben
al di sotto dei 101 milioni previsti
dal contratto vigente, e ancora peggio rispetto ai 120 milioni di Km
prodotti nel 2000.
Il
livello di offerta è oggi al minimo storico. Questi numeri danno la
misura del disagio quotidiano avvertito dagli utenti, seppure in modi
differenziati sul territorio. La riduzione media di circa il 30% non
è applicata alle linee centrali già sature e viene scaricata sulle
linee periferiche, fino a raggiungere tagli superiori al 50%;
addirittura di alcune linee è rimasta solo la palina a testimoniare
che una volta passava anche l'autobus.
Il
piano industriale approvato dalle delibere comunali prevede che nei
prossimi anni l'offerta di trasporto aumenterà lievemente ma rimarrà
comunque al di sotto del livello previsto dal contratto di servizio.
Solo nel 2021, alla fine della proroga della gestione in
house,
raggiungerà l'obiettivo di 101 milioni. È un paradosso
amministrativo: con l'approvazione del piano industriale l'Atac viene
autorizzata a non rispettare il contratto di servizio che pure ha
stipulato con il Comune. La giunta Raggi certifica che durante il suo
mandato il servizio rimarrà insufficiente rispetto alle previsioni.
Se
il bilancio comunale prevede di finanziare più trasporto ma
l'azienda non riesce a produrlo, la giunta dovrebbe affidare mediante
gare ad altri gestori almeno la quota di servizio non soddisfatta
dall'Atac (101-80=20 milioni di Km). La concorrenza, quindi, si rende
necessaria non solo in base alle leggi nazionali ma anche per la
semplice constatazione che l'azienda non riesce a produrre quanto
richiesto dallo stesso Comune. Invece, si prolunga il monopolio pur
sapendo che non è in grado di rispettare gli impegni verso la città.
Ciò procura un danno evidente agli utenti e meno visibile alla
stessa azienda. Nel suo bilancio, infatti, in base al contratto
stipulato con il Comune è scritto in entrata il corrispettivo
previsto, che però viene decurtato a causa del minore servizio
erogato, determinando una perdita. La crisi di bilancio dell'Atac
dipende dall’incapacità di produrre la necessaria quantità di
trasporto. Le ragioni sono da ricercare innanzitutto
nell'inefficiente organizzazione del lavoro e nella carenza degli
investimenti. Ma al di là delle spiegazioni settoriali, la
sottoproduzione è il risultato di una deriva autoreferenziale che
induce l'azienda a rispondere agli interessi interni prima che alle
esigenze del servizio.
Riassumendo,
il monopolio è una prigione che impedisce alla città di ottenere
più servizio e allo stesso tempo indebita l'azienda. La delibera di
proroga, quindi, produce solo effetti negativi per i cittadini.
2.
Il concordato preventivo è una procedura fallimentare che consente
di gestire, sotto il controllo del Tribunale, il contenzioso con i
creditori, assicurando la continuità del servizio. L'esito però non
è scontato, e in caso negativo porterebbe al fallimento ordinario
che sarebbe affidato a un commissario al fine di liquidare l'azienda,
con esiti imprevedibili per il servizio pubblico. L'insuccesso
del concordato può venire da cause amministrative oppure economiche.
La
fragilità amministrativa dipende dalle incongruenze formali e
sostanziali di entrambe le delibere. Sulla proroga del monopolio c'è
un
parere
negativo dell'Autorità per la concorrenza
perché il Comune non può dimostrare, come richiederebbe la legge,
che il ricorso all'in
house è
più efficiente delle gare. Inoltre, la delibera di approvazione del
piano industriale che accompagna il concordato contiene diversi
profili di rischio e di illegittimità espressamente richiamati nei
pareri del Ragioniere e del Segretario del Comune allegati alle
delibere di Giunta (n. 1 e 4 del 3-4 gennaio 2018). Nella mia lunga
esperienza capitolina mai mi era capitato di leggere pareri così
dettagliati e severi da parte dei massimi responsabili del controllo
interno. Tra l'altro si spingono a dichiarare che non sono stati
messi in grado di svolgere un'adeguata istruttoria degli atti portati
all'esame della giunta. Con questi pareri le delibere resisterebbero
difficilmente al contenzioso che un soggetto interessato
eventualmente volesse attivare. Anche il
Tribunale
fallimentare,
in via istruttoria con il decreto del 21 marzo 2018, ha evidenziato
alcune illegittimità che dovranno essere chiarite dal Comune per
ottenere l’approvazione del concordato.
La
fragilità economica è indicata già nel nome della procedura che si
chiama "concordato" perché è mirata a ottenere il
consenso della maggioranza dei creditori, i quali si esprimeranno in
apposite assemblee nei prossimi mesi. Se non approveranno la proposta
il processo scivolerà verso il fallimento ordinario con la
conseguente liquidazione dell'azienda. L'accettazione o il rifiuto
dipendono quindi da quanta parte del credito viene riconosciuta. La
proposta non sembra entusiasmante: i creditori riceverebbero solo il
31% del dovuto entro il 2021, poi otterrebbero con quantità e tempi
incerti ulteriori ristori : il 30% entro il 2022 e il saldo finale
del 39% dopo il 2027 senza una precisa scadenza. L'incertezza dipende
dal fatto che queste ultime rate verranno erogate nella forma di due
prodotti finanziari connessi alla partecipazione al 30% di eventuali
futuri utili. Che l'Atac non vada più in rosso e cominci a produrre
profitti è una previsione molto coraggiosa. E per certi versi anche
negativa, perché gli eventuali utili dovrebbero essere prima di
tutto investiti per potenziare il trasporto, almeno fino a livello
previsto dal contratto di servizio.
Il
successo della procedura, quindi, non è assicurato, ma supponiamo
che l'esito sia positivo. In sostanza il concordato ha l'obiettivo di
superare la crisi operando all'interno sulla produttività del lavoro
e all'esterno sul sacrificio economico a carico dei fornitori. A
giudizio del Ragioniere il risanamento interno è debole e tutto il
processo è fondato solo sulle ricadute esterne. La critica - ripresa
poi anche dal Tribunale fallimentare - è molto dura e meriterebbe
una presa di posizione della giunta che invece si limita a
certificare un dissidio esplicito tra gli alti dirigenti comunali e
gli organi aziendali.
Senza
una smentita della tesi del Ragioniere, rimane legittimo il dubbio
che il concordato sia utilizzato dal
corporativismo
aziendale
per conservare se stesso e far pagare il conto solo ai fornitori. Tra
questi reggeranno agevolmente l’abbattimento del credito coloro che
hanno ottenuto prezzi elevati su commesse non concorrenziali, come è
accaduto nei
casi
segnalati dagli analisti
e dai media. Al contrario, i fornitori efficienti che hanno vinto le
gare con prezzi congrui, se otterranno solo il 31% della liquidità
spettante, subiranno un colpo tanto grave da mettere a rischio
l’attività imprenditoriale. In Campidoglio nessuno si preoccupa
degli effetti devastanti sul tessuto produttivo di un'operazione che
salva le imprese assistite e penalizza quelle più competitive.
In
ogni caso, l'abbattimento dei vecchi crediti renderà più difficile
l'approvvigionamento delle nuove forniture, come sottolinea anche il
Tribunale in particolare per l'acquisto degli autobus. Le imprese che
hanno subito un danno saranno più esigenti nel chiedere pagamenti
immediati, e molte altre eviteranno di partecipare alle gare bandite
dall'Atac oppure interromperanno i lavori in corso, come si è già
visto nelle opere di ristrutturazione delle ferrovie di Ostia e di
Roma Nord. Tutto ciò rischia di accentuare la mancanza di ricambi e
la penuria di investimenti, cioè proprio i principali motivi di
sofferenza della produzione degli anni passati. Il concordato non
solo non risolve, ma asseconda le dinamiche della crisi aziendale.
Infine,
le due delibere che dovrebbero risanare l'azienda in realtà
peggiorano le sofferenze di bilancio. La proroga del monopolio è
sanzionata dalla
legge
(articolo 27, c. 2,
lettera d del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017) con una
riduzione del finanziamento regionale pari al 15% del costo del
contratto di servizio. Ciò comporta a regime un taglio di circa 100
milioni che verrà applicato gradualmente a partire da 20 milioni nel
2020.
Ancora
più penosa è la vicenda dell’integrazione tariffaria Metrebus,
nella quale l'Atac ha gestito la cassa senza versare al Cotral e a
Trenitalia le quote spettanti rispettivamente di circa 70 e 30
milioni. Nel concordato queste somme sono trattate come crediti di
normali fornitori, mentre invece derivano dal mancato riparto di
risorse tra i gestori pubblici del trasporto. Il tentativo di
abbattere questi debiti di
Metrebus
è destinato a fallire. Il Cotral otterrà infatti il rimborso dalla
Regione, che a compensazione taglierà ad Atac una pari somma nella
voce di finanziamento della gestione delle ferrovie concesse. Anche
Trenitalia attiverà un contenzioso per ottenere la sua parte degli
introiti tariffari. È prevedibile che circa 100 milioni saranno
sottratti alla procedura del concordato e riportati sul debito
corrente dell'Atac.
L'equilibrio
economico della proposta di concordato si regge sull'ipotesi di
vendere i depositi non più funzionali all'esercizio, secondo
un'impostazione duramente criticata dal Tribunale. Una delibera
comunale del 2011 aveva già autorizzato la vendita ma l'azienda e il
Comune non sono stati in grado di portarla a termine. Ora viene di
nuovo autorizzata l’alienazione, che potrà essere effettuata anche
prima della variante urbanistica. Un deposito di autobus vale ben
poco sul mercato, ma può moltiplicare diverse volte il suo valore se
diventa un edificio ad uso residenziale o terziario. Ciò significa
che il patrimonio verrà svenduto, perdendo la valorizzazione
immobiliare che sarà invece incamerata dall'acquirente. La
destinazione d'uso sarà oggetto di una trattativa con il
proprietario privato nella quale spesso il Comune si rivela incapace
di assicurare la qualità urbanistica e sociale dell'operazione.
Quando
si alienano immobili per ripianare i debiti di un'azienda si rischia
di favorire la
rendita
immobiliare
creando un altro debito in termini di infrastrutture che risultano
sottodimensionate rispetto alle necessità del quartiere coinvolto
nella trasformazione. Ad esempio, il nuovo stadio, al di là delle
favole raccontate ai tifosi, serve a ripianare i vecchi debiti
accumulati dai costruttori verso le banche e verrà realizzato con un
forte deficit infrastrutturale, tanto è vero che si è ventilato
l'intervento dello Stato per finanziare la realizzazione del nuovo
ponte sul Tevere.
Infine,
la gestione del concordato ha un costo elevato per le perizie, gli
avvocati, i commercialisti, i commissari. Si produrrà una camionata
di carte spendendo circa 13 milioni, che potrebbero essere investiti
invece nell'acquisto di una cinquantina di autobus, con effetti
sicuramente benefici sul trasporto cittadino. Ora
la
sindaca Raggi si accorge dell’onere delle consulenze,
ma era tutto scritto nella delibera di giunta sul concordato. Viene
il dubbio che l’abbia approvata senza neppure leggerla.
SI POTEVA EVITARE IL
FALLIMENTO DELL'ATAC
I
danni e rischi sarebbero stati evitati se non si fosse attivata la
procedura del concordato. È stata presentata come una scelta
obbligata, ma non è vero. L'Atac è stata gettata nella situazione
fallimentare proprio dal Comune. Infatti, la decisione del Ragioniere
di non riconoscere un debito comunale di circa 200 milioni ha creato
una voragine nel bilancio dell'Atac, portando il capitale sociale
sotto la soglia che rende obbligatoria la procedura fallimentare. La
giunta ha accettato supinamente l’interpretazione del Ragioniere,
nonostante una precedente delibera della giunta Marino (D.G. n. 323
del 2014) avesse già riconosciuto le ragioni all’Atac. Il debito
si riferisce a oneri dei contratti nazionali che sulla base di alcune
sentenze del Tribunale civile sono da attribuire al Comune. Una parte
del debito è riferita anche ad accordi locali sottoscritti
direttamente dalla giunta Alemanno senza il coinvolgimento
dell'azienda: una procedura inaudita che dice tutto sulla
devastazione delle regole di separazione tra indirizzo politico e
autonomia gestionale, tra compiti comunali e funzioni aziendali.
L'Amministratore
delegato ha contestato il provvedimento di cancellazione del debito e
coerentemente ha attivato un contenzioso in tribunale proprio contro
il Comune, che pure è impegnato a salvare l'azienda. Questa
contraddizione è duramente stigmatizzata nel parere del Ragioniere,
anch'egli in piena coerenza con il suo ruolo. Di fronte allo scontro
in atto tra i massimi dirigenti aziendali e comunali la giunta non ha
preso posizione e tanto meno ha sentito il bisogno di trovare una
mediazione. Il non governo dei processi rischia di portare agli esiti
più negativi. Sarà infatti la magistratura a risolvere anche questa
partita: se darà ragione all'Atac verranno a cadere le condizioni
obbligatorie del fallimento e il debito di 200 milioni tornerà in
capo al Comune.
Se
invece il tribunale respingerà l'istanza dell'Amministratore
delegato la procedura del concordato rimarrà confermata, ma si
determinerà un danno non minore nel bilancio comunale. Infatti,
questo prevede anche di incassare da Atac una somma di circa 500
milioni per una serie di anticipazioni dei fondi regionali effettuate
dalla Ragioneria comunale e non restituite. È un caso emblematico
del grave disordine contabile tra controllante e controllato.
La
procedura del concordato stabilisce che i crediti dell'azionista si
possano soddisfare solo dopo aver saldato quelli dei fornitori. Nella
delibera si posticipa il rimborso al Comune con rate poliennali a
cominciare dal 2022, ma in quel periodo, come si è visto, dovrebbe
essere ancora in corso il saldo ai creditori, per la quota residua
del 39%, mediante il secondo prodotto finanziario. Entrambi i
rimborsi andrebbero ad attingere contemporaneamente al 30% degli
utili in proporzione all'ammontare dei crediti. Il Tribunale ritiene
illegittima questa sovrapposizione e quindi l'Atac dovrà riformulare
il progetto del concordato spostando a valle della completa
soddisfazione dei creditori privati il credito così detto
"postergato" del Comune. Non si può quindi definire con
precisione la data della prima rata di rimborso, comunque verso la
fine degli anni venti, quando i creditori avranno riscosso il secondo
prodotto finanziario. Occorre ricordare che una precedente delibera
della giunta Raggi, n. 53 del 12 ottobre 2016, aveva già approvato
un accordo con l'azienda per attivare il rimborso della somma in
venti anni a partire dal 2019. Questa delibera è stata annullata il
28 agosto del 2017, dopo l'annuncio del concordato. Il Comune si è
fatto del male da solo: nella nuova impostazione il suo credito verrà
rimborsato non si sa bene quando, ma probabilmente dieci anni dopo la
data che era stata prevista.
Si
determina, però, un paradosso: il rimborso del credito è previsto
dopo la scadenza della proroga dell'in-house,
cioè quando l'azienda non sarà più titolare della concessione. Il
Segretario e il Ragioniere esprimono la preoccupazione di prorogare
un grande credito a un soggetto che potrebbe non esistere più alla
scadenza prevista. Alternativamente, nel 2021, quando terminerà la
proroga, potrebbe venire la tentazione di prolungare ulteriormente la
gestione in
house per
tenere in vita l'azienda che deve restituire i 500 milioni. Il Comune
potrebbe trovarsi in un'alternativa comunque dannosa: o perde il
credito o blinda il monopolio. In ogni caso, il rinvio del rimborso
di un credito di questa portata produce ulteriori sofferenze nella
gestione corrente delle risorse comunali.
Inoltre,
la proroga del monopolio espone il Comune verso i fornitori
dell'Atac. La figura giuridica dell'in
house -
come è evidente dal nome - configura l'azienda come una diretta
dipendenza dell'Amministrazione, al pari degli altri dipartimenti
comunali. In base a questa interpretazione la magistratura civile e
quella amministrativa potrebbero riconoscere ai creditori qualche
diritto a rivalersi direttamente sul Campidoglio. C'è già stata
infatti l'attivazione di tale istanza da parte di uno dei principali
fornitori, quello della vigilanza degli impianti, e potrebbe essere
solo l'inizio di una serie.
Il
concordato diffonde gli effetti negativi sulle altre aziende
capitoline che vantano crediti nei confronti di Atac. L'Acea e l'Ama
perdono una somma di circa 50 milioni che potrebbe ricadere sul
Comune in quanto azionista. Anche questo rischio è evidenziato dal
parere del Ragioniere.
In
conclusione, il concordato produce rischi gravi per l'azienda e un
danno sicuro per il Comune. Invece di ratificare gli eventi la giunta
doveva elaborare un'idea autonoma di come governare il processo.
Doveva evitare il fallimento respingendo la proposta del Ragioniere
di scaricare sull'Atac il debito di 200 milioni, facendo riferimento
alla deliberazione precedente che ne riconosceva la validità.
Curiosamente non ha avuto la forza di mettere in discussione una
decisione sbagliata del dirigente contabile, ma poi ha ignorato il
suo parere e quello del Segretario generale, entrambi fortemente
negativi sulla delibera del concordato. Emerge un'evidente
contraddizione dell'organo politico, poiché asseconda gli errori e
rifiuta i pareri della burocrazia.
SEPARARE IL DEBITO DAL
SERVIZIO
Tutti
i problemi soprarichiamati non derivano dal concordato in sé - che
anzi è un'ottima procedura di governo delle crisi aziendali - ma
dall'illusoria ipotesi che ne sorregge l'applicazione al caso
specifico. Si immagina che l'Atac sia capace di non produrre più
debito, anzi di creare un utile sufficiente a ripagare i crediti. Non
solo è uno scenario poco credibile, ma è anche doppiamente dannoso:
in primo luogo, perché il management sotto la stretta dei commissari
nominati dal Tribunale sarà tentato di raggiungere gli obiettivi
finanziari riducendo le risorse disponibili per il servizio di
trasporto. Già negli anni passati la crisi finanziaria ha comportato
l'abbattimento degli investimenti e ha determinato una forte
riduzione dell'offerta, come sanno per esperienza diretta i cittadini
romani; in secondo luogo, l'eventuale attivo che dovesse emergere
dall'applicazione del piano industriale, verrebbe sequestrato dal
ripiano dei crediti, mentre dovrebbe essere finalizzato a migliorare
il servizio che si trova oggi al minimo storico.
In
ogni caso è sbagliato il presupposto fondamentale dell'operazione:
gestire il debito in azienda non solo non è risolutivo, ma frena la
produzione industriale, complica il rapporto con i fornitori, riduce
gli investimenti, degrada l’offerta e quindi rischia di determinare
nuove perdite. Non sono previsioni pessimistiche, è solo la
constatazione di un circuito vizioso in atto da un decennio: il
debito impedisce di produrre l'offerta stabilita dal contratto di
servizio stipulato con il Comune, il quale di conseguenza ha dovuto
ridurre l'erogazione del finanziamento, aggravando così la crisi
finanziaria.
In
linea teorica il debito non dovrebbe proprio esistere in un'azienda
titolare di un contratto di servizio, perché il corrispettivo più
gli introiti delle tariffe dovrebbero coprire interamente i costi di
produzione relativi al volume di offerta. Lo sbilanciamento è stato
quindi determinato da una cattiva gestione del contratto da parte di
entrambi i soggetti: l'azienda non produceva la quantità prevista;
il corrispettivo non era adeguato oppure era definito in modo ambiguo
e tale da generare contenziosi. Con il contratto di servizio
stipulato nel 2015 si è compiuto un passo avanti nella chiarezza
degli obiettivi da raggiungere e delle risorse disponibili. Si può
fare ancora meglio per evitare che si ricreino nuovi debiti quando
l'azienda sarà liberata dal peso del passato.
A
tal fine l'unica soluzione possibile consiste nel
separare
il debito dal servizio.
Solo slegando i due problemi si può risolverli alla radice. Il primo
va affrontato riconoscendo che ormai le perdite non sono più solo
dell'azienda ma riguardano il Comune di Roma come azionista unico. Il
secondo ha bisogno di migliorare l'efficacia e l'efficienza mediante
la liberalizzazione della produzione, come vedremo nei prossimi
paragrafi.
Già
negli anni passati si doveva decidere di assumere il debito a livello
comunale per prevenire la crisi. Il Comune doveva riconoscere la
partita negativa dei 200 milioni, compensandola con la partita
positiva dei 500 milioni per ottenere un quadro più stabile. L'Atac
non avrebbe portato i libri in tribunale. Nel bilancio comunale
sarebbe stato scritto un credito di 300 milioni, certo inferiore ma
più credibile di quello di 500 milioni che sarà rinviato alla fine
degli anni venti e rimborsato completamente solo verso il 2050,
peraltro con l'incertezza denunciata dagli alti dirigenti comunali.
La
separazione del debito dal servizio è ancora una misura valida e
anzi potrebbe presentarsi come l'unica soluzione in caso di
insuccesso della procedura concordataria. Si tratta di prendere atto
realisticamente che l'Atac non è in grado di ripagare l'azionista.
Di conseguenza il credito comunale di 300 milioni diventa inesigibile
e si trasforma in un debito del bilancio capitolino da affrontare con
la necessaria gradualità e gli strumenti adeguati. Potrebbe essere
collocato nella gestione commissariale degli oneri finanziari del
Comune, istituita dieci anni fa con il famoso "accordo della
pajata" tra Tremonti, Bossi e Alemanno.
Il
"buco" di bilancio allora non c'era,
ma il polverone mediatico servì a coprire la decisione più
scellerata: furono cancellati gli investimenti dello Stato per la
Capitale e in cambio il Comune ottenne la possibilità di gonfiare la
spesa corrente. Si allentarono i cordoni della borsa per consentire
le assunzioni di Parentopoli all'Atac e furono quasi annullati gli
investimenti per gli acquisti degli autobus.
A
quei tempi il Commissariato per il debito comunale non serviva, ma
oggi potrebbe essere utilizzato per riparare i danni successivi:
consentirebbe di gestire il debito del trasporto con adeguata
professionalità, al riparo dei pignoramenti, fuori dall'emergenza e
con maggiori margini di manovra verso le banche, dalle quali dipende
in gran parte l'esito finale. Si dovrebbe istituire, con una piccola
modifica normativa, una sezione speciale del commissariamento al fine
di attribuire gli oneri solo al Comune, evitando ulteriori sussidi
statali.
Ho
proposto
nell'ottobre del 2017 l'assunzione del debito da parte del Comune ed
è apparsa azzardata a molti osservatori. Eppure è pienamente
giustificata dal punto di vista empirico e teorico. In pratica è già
accaduto in passato che la gestione commissariale assumesse la voce
passiva dei 200 milioni verso Atac. In seguito la somma fu riportata
in capo al bilancio corrente e da qui scaricata sulle spalle
dell'Atac con la decisione del Ragioniere di cui si è già detto.
Per
chiarire il punto di vista teorico occorre ritornare sull'ipotesi che
sorregge il concordato. Si promette di saldare i creditori facendo
conto sull'utile di servizio che sarebbe determinato dall'attuazione
del piano industriale. Ma un'azienda finanziata dal contratto di
servizio, come non dovrebbe avere un debito, non dovrebbe neppure
presentare un utile di gestione oltre una ragionevole remunerazione
del capitale. Infatti, un surplus molto alto, quanto sarebbe
necessario per ripianare il debito, segnalerebbe una stima in eccesso
dei costi di produzione che dovrebbe essere corretta con la revisione
a ribasso del corrispettivo del contratto. Se ciò non avvenisse il
Comune deciderebbe, senza saperlo o senza dichiararlo, di finanziare
indirettamente il ripiano del debito consentendo un eccessivo utile
di gestione all'azienda. Quindi, già l'attuale concordato è basato,
senza alcuna trasparenza, su una presa in carico del debito Atac da
parte del Comune. E allora sarebbe meglio realizzare lo stesso
obiettivo dichiarandolo esplicitamente, assumendo il ripiano nella
gestione commissariale e uscendo dalla procedura fallimentare.
In
tal modo si porterebbe a soluzione il debito pregresso, togliendo
dalle spalle dell'azienda un peso insostenibile e creando quindi le
condizioni più favorevoli per la radicale riforma della gestione del
servizio. Solo così si potrebbe evitare la formazione di nuovo
debito e innalzare l'offerta di trasporto per i cittadini.
SUPERARE IL MONOPOLIO
Il
piano industriale che accompagna il concordato è inadeguato negli
obiettivi e negli strumenti. Contiene ricette già annunciate in
passato e quasi mai messe in pratica. Propone soluzioni largamente al
di sotto della grave crisi strutturale. Nell'ultimo decennio
l'azienda ha smarrito i principi elementari di organizzazione dei
processi, ha accumulato un ritardo tecnologico, ha dequalificato il
management e ha sperperato ciò che rimaneva della sua credibilità
interna ed esterna. Un'azienda in questo condizioni non si riprende
con provvedimenti di ordinaria amministrazione. È necessario mettere
in discussione l'assetto produttivo e regolativo. Il superamento del
monopolio è l'unica via d'uscita dalla crisi, non solo perché lo
impone la legge, ma innanzitutto per l'irreversibile degrado della
struttura aziendale.
Al
contrario, la giunta ha scelto di conservare il monopolio utilizzando
come alibi proprio il concordato, presentandolo come uno scenario che
renderebbe impossibili le gare. È falso, non solo non esistono
impedimenti giuridici, ma secondo il Tribunale fallimentare il
difetto più grave della proposta di concordato consiste proprio nel
non aver preso in esame "le misure regolatorie dell'Autorità di
Regolazione dei Trasporti in tema di trasferimento dei beni
strumentali al nuovo gestore".
L'apertura
al mercato con l'esternalizzazione della produzione dovrebbe essere
la priorità del piano industriale. Sarebbe l'unico provvedimento
capace di innalzare la produttività e di rendere credibile il
risanamento anche verso i creditori. Già l’annuncio della
concorrenza darebbe una scossa di efficienza, come al contrario
la
scelta dell’in
house
quindici anni fa
ha innescato il degrado del servizio e del bilancio. Fu percepita dai
peggiori vizi aziendali come una sorta di “tana libera tutti”.
Consentì il ritorno in grande stile del comando politico e sindacale
sui dirigenti aziendali. Tornò la vecchia logica: le risorse sono
consumate prima di tutto nel consociativismo degli interessi interni,
e solo ciò che avanza rimane disponibile per il servizio ai
cittadini. È l'esito di un monopolio che di pubblico ha ormai solo
il nome e anzi mette in sofferenza la vita quotidiana della città.
L'alibi
del concordato per la proroga del monopolio è servito a sancire il
patto con i sindacati, i quali forse solo dopo si sono accorti di
essere caduti nella trappola. Per la prima volta nella storia
aziendale hanno accettato di entrare in una procedura fallimentare
che potrebbe avere esiti disastrosi, non hanno denunciato con forza
la responsabilità della giunta nel buco di bilancio e non hanno
chiesto neppure che il Comune si facesse carico della sofferenza
finanziaria dell'azienda, ottenendo in cambio solo il rinvio di due
anni delle gare. Il patto è stato implicitamente recepito
nell'ordine del giorno approvato dal Consiglio Comunale il 7
settembre del 2017, secondo
il quale il concordato sarebbe volto a "mantenere, unitamente al
servizio di TPL da parte di Atac, la connessa salvaguardia dei
livelli occupazionali". Ma non è un grande risultato per i
lavoratori, poiché, come vedremo più avanti, la concorrenza in
qualsiasi forma garantisce la continuità della forza lavoro. Con le
gare invece finisce il consociativismo sindacale nella gestione delle
funzioni che dovrebbero essere nella responsabilità dei quadri
direttivi. Tutto ciò è stato non solo dannoso per l'azienda -
poiché ha assecondato l'abdicazione della dirigenza - ma ha distorto
le stesse organizzazioni sindacali che si sono burocratizzate e
frammentate in una decina di sigle per suddividere il potere
consociativo. La concorrenza può aiutare a creare normali relazioni
industriali sulla base del contratto nazionale di lavoro. Sarà una
formidabile occasione di rinnovamento per il sindacato: potrà
difendere i diritti dei lavoratori senza far conto sull'ignavia dei
dirigenti, anzi dovrà controllare il management e proporre
piattaforme rivendicative coerenti con la qualità del servizio di
trasporto.
La
sindaca Raggi ha stipulato un'intesa elettorale con i corporativismi
aziendali e oggi mantiene la promessa di conservare lo status quo.
Dopo essersi presentata in discontinuità con le classi politiche
precedenti ne perpetua le politiche sbagliate. Per giustificarsi
inventa inesistenti problemi relativi alla gestione delle gare: ha
sostenuto che comporterebbero l'aumento delle tariffe, ma è falso,
come sanno bene i cittadini che utilizzano il titolo di viaggio
Metrebus non solo sui mezzi Atac ma anche sugli autobus già oggi
gestiti da privati nella rete periferica; ha dichiarato che ci
vorrebbe troppo tempo, circa 4-5 anni, ma i suoi uffici stanno già
elaborando i capitolati per la gara sulla rete periferica la cui
concessione scade a giugno 2018.
Con
questo bando si chiede ai privati una produzione di servizio di 40
milioni di Km, superiore ai 27 milioni di Km attualmente gestiti da
Roma Tpl. C'è quindi un consistente aumento di offerta di 13 milioni
di Km che non riguarderà solo l'attuale rete periferica, ma sarà
probabilmente impegnato su altre linee attualmente gestite dall'Atac.
Se fosse così sarebbe un'ottima decisione, proprio come auspicavo
nel primo paragrafo: se il monopolista non è in grado di produrre la
quantità fissata dal contratto di servizio, è necessario ricorrere
a un altro produttore che integri l'offerta. Ma ciò significa che la
giunta toglie all'Atac una parte della concessione per metterla sul
mercato, proprio mentre dichiara solennemente di voler mantenere il
monopolio. È una clamorosa contraddizione politica: si rifiuta a
parole la concorrenza ma poi viene attuata di soppiatto, senza alcuna
trasparenza.
La
complessità del problema richiederebbe invece un approccio rigoroso
e trasparente. La prima decisione da prendere è il
superamento
del monopolio
dell’Atac. Non è in discussione il se
ma il come.
Procedere alle gare è una scelta quasi obbligata dalle leggi
vigenti, se non in diritto almeno in via di fatto, per le ragioni
suddette.
Come
vengono attuate invece è dirimente
per ottenere risultati positivi o negativi. Sono possibili due
scenari: con la liberalizzazione diminuiscono i costi e migliora il
servizio, invece con la privatizzazione si rischia di peggiorare sia
l'offerta per i cittadini sia il peso sul bilancio comunale.
Esaminiamo entrambi gli scenari nei paragrafi seguenti.
SÌ ALLA LIBERALIZZAZIONE
La
storia del trasporto in Italia dimostra una tendenza costante dei
produttori a imporre i propri interessi prima e sopra quelli dei
cittadini. I monopoli hanno curato le esigenze corporative aziendali
più del servizio pubblico. Anche nel linguaggio della policy
community
- la retorica manageriale, i discorsi politici, i documenti normativi
e perfino gran parte della letteratura scientifica - l'ottica
aziendale prevale su quella degli utenti.
Soprattutto
a Roma la regolazione del trasporto ha tradito le motivazioni
originarie della municipalizzazione. Dal punto di vista formale
dovrebbe essere il Comune a prendere le decisioni e l'azienda
dovrebbe semplicemente attuarle. Nella realtà però accade
esattamente il contrario. Nell'ultimo decennio il carrozzone Atac ha
imposto in via di fatto, spesso senza una chiara decisione formale
dell'amministrazione, una serie di scelte negative per la città:
offerta quasi sempre inferiore al livello necessario; degrado
dell'integrazione tariffaria a causa dei litigi tra le burocrazie
delle diverse aziende pubbliche; debiti gestionali e poi pretesa di
impadronirsi degli utili con il concordato; mancanza di investimenti
essenziali e ordinari per l'esercizio; ritardo tecnologico
nell'infomobility e inadeguatezza del controllo satellitare che non
fornisce informazioni attendibili agli utenti; fallimenti gestionali
nella diversificazione delle linee - a orario, Express - e nella
biforcazione nella metro B; revisioni della rete per assecondare la
minore produzione di servizio, come descritto più avanti.
È
tempo di riconoscere le conseguenze inaccettabili di questo assetto
aziendale. L'enorme dimensione produttiva di oltre diecimila
dipendenti, la più grande industria dell'Italia centrale,
costituisce una forza di condizionamento delle decisioni pubbliche.
Il servizio del trasporto deve tornare pienamente sotto il governo
dell'amministrazione pubblica che risponde ai cittadini. Le attuali
regole formali non sono sufficienti: per rafforzare la sovranità del
Comune deve diminuire il potere reale dell'azienda. E ciò si può
ottenere solo con nuovo sistema regolativo: da un lato occorre
alleggerire l'azienda pubblica dal peso dell'attività industriale;
dall'altro lato l'Amministrazione deve dotarsi di professionalità e
di uffici capaci di svolgere effettivamente le competenze regolative.
Soprattutto la politica deve smetterla di immischiarsi nella gestione
e si deve dedicare alla programmazione degli obiettivi e delle
risorse.
Per
superare il monopolio in senso reale e non solo formale occorre
separare due momenti fondamentali del trasporto pubblico: la
produzione e il servizio.
La
produzione è l'attività industriale che organizza la guida e la
manutenzione dei mezzi. Il servizio è l'insieme delle strutture e
delle funzioni che rendono possibile la produzione e la tramutano in
offerta di trasporto per i cittadini.
La
liberalizzazione consiste nel sottoporre a concorrenza la produzione
del trasporto, tenendo saldamente in mano pubblica la gestione del
servizio. Ciascuno è chiamato a fare bene il proprio mestiere: i
privati per vincere le gare devono aumentare l'efficienza
industriale; il Comune si assume la responsabilità di decidere sulla
qualità e sulla quantità del trasporto, liberandosi dai
condizionamenti dell'azienda monopolista.
L'attuazione
pratica della liberalizzazione comporta la soluzione di complessi
problemi sia nell'organizzazione della produzione sia nella gestione
del servizio.
1.
La produzione.
Il risultato della concorrenza nella produzione dipende in gran parte
dalla capacità di organizzare procedure di gara efficaci, rigorose e
realmente contendibili, in maniera che vinca il migliore. Nei bandi
devono essere garantite effettive condizioni di parità di
trattamento per tutti gli operatori. Per la definizione dei
capitolati si può prendere come base di riferimento proprio quel
contratto di servizio che l'azienda pubblica per tanti anni non ha
saputo rispettare, valutando tutte le innovazioni che le imprese
private sono in grado di apportare. Esse avranno il compito di
migliorare le procedure gestionali, l’organizzazione del lavoro e
la logistica.
Dovranno
comunque assumere i lavoratori attualmente impegnati nelle funzioni
produttive, alle stesse condizioni salariali, e potranno invece
sostituire i dirigenti. Si tratta quindi di gare che hanno per
oggetto prevalentemente il management. La causa prima della crisi,
infatti, è da ricercarsi nella cronica incapacità dei dirigenti,
con alcune meritorie eccezioni, nel mettere in pratica i più
elementari principi di gestione aziendale e innovazione tecnologica.
Le cause della dequalificazione vengono da lontano e si sono
accentuate negli ultimi tempi: i dirigenti non rispondono a una
razionalità aziendale, ma sono prima di tutto fedeli ai padrini
politici e sindacali che influiscono sulle loro carriere; e così
incitano tutti i dipendenti a fare altrettanto.
Quando
penso alla grave carenza di direzione, mi stupisco sempre nel vedere
che gli autobus nonostante tutto percorrono le strade romane. Non è
un'azienda, è una sorta di "associazione di autisti" che
producono il servizio in base alle loro doti di autogoverno. Se ne
può avere conferma empirica osservando le ampie oscillazioni di
risultato in funzione dello stato d'animo degli operatori: la forte
motivazione che scatta in occasione dei grandi eventi politici o
religiosi produce miracoli nella gestione del servizio, come ad
esempio si vide per la canonizzazione degli ultimi papi. Al
contrario, il servizio degrada quando un malessere nelle relazioni
sindacali annulla quell'autogestione che è l'unica risorsa
produttiva. Non c'è una qualità "normale" per mancanza di
una rigorosa organizzazione industriale. Ma se, nell'eccesso opposto,
si dovesse intervenire con un irrigidimento tecnocratico, l'esito
finale potrebbe essere inferiore a quello ottenuto per via spontanea.
Da tutto ciò viene un monito ai nuovi gestori: potranno fare meglio
di oggi solo se sapranno motivare gli autisti e tutti i dipendenti in
una nuova organizzazione del lavoro.
Alle
gare si dovrebbe accompagnare un'incisiva operazione di risanamento.
Per effetto di Parentopoli l'azienda si è riempita di figure
amministrative, restringendo i margini di assunzione degli autisti.
Il capitolato delle gare può limitarsi a registrare la situazione
caricando il privato di personale non necessario e ovviamente
pagandone il prezzo nella base d'asta dell'appalto. Sarebbe meglio
invece affrontare una complessa operazione di riconversione
professionale di questo personale per ricollocarlo
nell'amministrazione comunale che presenta in diversi settori
evidenti carenze di organico. In questo modo il Comune migliorerebbe
la propria organizzazione del lavoro e pagherebbe un prezzo inferiore
nell'appalto, trasferendo al privato solo il personale strettamente
necessario alla produzione.
I
mezzi di trasporto - autobus, tram e treni - dovrebbero essere di
proprietà pubblica. Verrebbero conferiti al privato che in tal modo
non sarebbe costretto a sostenere complessi investimenti con i
conseguenti oneri di ammortamento. Ciò consentirebbe di accorciare
la durata della concessione. Le imprese verrebbero sottoposte
frequentemente alle gare, migliorando la concorrenzialità del
sistema.
Nonostante
la diffusa tendenza a creare carrozzoni
non
ci sono rilevanti economie di scala.
Una dimensione ottimale della produzione è il bacino corrispondente
al deposito, che si può considerare come la "fabbrica" del
trasporto. A Roma non è ben calibrata la
copertura
territoriale degli attuali depositi,
alcuni troppo grandi, altri troppo piccoli o distanti dal bacino di
servizio. Andrebbe programmato un investimento per migliorare la
logistica e ridurre i percorsi a vuoto degli autobus a inizio turno.
Comunque, seguendo il dimensionamento per deposito si dovrebbero
organizzare le gare su una decina di lotti per il settore della
gomma, da attuare gradualmente in due-tre anni e non con un bando
unico. Altri lotti dovrebbero poi riguardare la produzione sul ferro,
uno per ciascuna infrastruttura, la metro A, B e C, la rete tram e le
ferrovie concesse, in accordo con la Regione che ne è proprietaria.
Si dovrebbe investire sulla estensione alle linee A e B della guida
automatica che sulla linea C ha già dato ottimi risultati di
efficienza, regolarità e sicurezza.
Si
avrebbero complessivamente circa una quindicina di lotti con le
dimensioni analoghe a quelle di un capoluogo di provincia. Ovviamente
si dovrebbe consentire ai migliori operatori di poter vincere le gare
su più lotti al fine di massimizzare la qualità del sistema.
Andrebbe però stabilito un limite massimo - ad esempio 3-4 lotti -
per evitare che si creino nuove tendenze monopolistiche.
Complessivamente sulla piazza romana ci sarebbero quindi 4-5 grandi
operatori a gestione multipla dei lotti. La frammentazione dei
contratti serve a rafforzare il controllo del pubblico e a inibire il
potere di ricatto di privati che potrebbero minacciare l'interruzione
di servizio per ottenere condizioni più favorevoli. Le autorità
comunali potrebbero facilmente rescindere il contratto ad un
operatore inadempiente, ampliando ad un altro l'affidamento fino
all'espletamento della nuova gara. Divide
et impera
è una vecchia massima che si adatta molto bene alla politica di
liberalizzazione.
La
produzione funziona meglio nella piccola scala, mentre il servizio
deve essere integrato a larga scala, non solo la città ma la
regione, non solo gli autobus, ma tutte le altre modalità, i tram,
le metro e le ferrovie. Questa regola antitetica diventa chiara solo
nella liberalizzazione che separa produzione e servizio. Al
contrario, il vecchio monopolio oscura la differenza, utilizzando
l'integrazione del servizio come alibi per giustificare i carrozzoni
inefficienti della produzione. Ricorre spesso nel dibattito la
proposta di unificazione di Atac con il Cotral e Ferrovie dello
Stato. Sarebbe un mostro burocratico privo di qualsiasi economia di
scala, ma viene giustificato applicando impropriamente alla
produzione il principio di integrazione che invece vale solo per il
servizio.
Per
concludere sul tema della produzione, l'assetto proposto assegna ai
privati un compito molto vincolato, come fornitori della trazione dei
mezzi e della manutenzione. Questo prodotto poi viene assemblato dal
soggetto pubblico in un servizio per i cittadini. I privati quindi
non hanno alcun rapporto con gli utenti e non possono influire sui
caratteri pubblici del servizio, dalle linee alle tariffe. È
un'interpretazione radicale della modalità contrattuale chiamata
gross-cost.
Ha dato ottimi risultati, come dimostrano
recenti
studi,
nei paesi che ne hanno fatto ampio uso - Germania e Svezia - portando
a significativi miglioramenti di modal
split a
favore del mezzo pubblico. Si può obiettare, però, che in tal modo
si restringe troppo lo spirito di iniziativa degli imprenditori. C'è
il rischio di una scarsa varianza dei parametri di concorrenza e
potrebbe venire la tentazione di ampliare i margini comprimendo i
diritti del lavoro. Sono obiezioni fondate e bisogna tenerne conto
con un'attenta definizione dei capitolati, descrivendo al meglio le
variabili di qualità della produzione e ponendo vincoli rigorosi sul
rispetto dei contratti di lavoro.
Come
sempre in una policy
complessa si tratta di scegliere le priorità. A mio avviso, bisogna
accettare, e mitigare, questo difetto della restrizione
dell'iniziativa imprenditoriale perché è molto più importante
salvaguardare l'autonomia delle decisioni di interesse collettivo. La
sfida vera della liberalizzazione riguarda il potere di regolazione.
Per assegnare un vero primato al pubblico, bisogna contenere i
privati in un ruolo meramente produttivo.
2.
Il servizio.
Non basta però contenere i privati, occorre ripensare radicalmente
la forma e il ruolo dell'azienda pubblica. La liberalizzazione
presuppone un assetto di governo della mobilità che imponga
effettivamente la priorità dell'offerta ai cittadini rispetto ai
condizionamenti delle strutture operative.
Bisogna
scomporre l'azienda sulla linea di separazione tra servizio e
produzione. Ecco il cuore della riforma: l'Atac deve trasformarsi in
una moderna agenzia di governo del sistema. Si dovrà liberare della
produzione, che peraltro gestisce male ormai da quasi un trentennio,
per diventare una tecnostruttura specializzata nella regolazione e
nell'integrazione del trasporto. Sarà un'azienda più piccola, circa
un decimo del personale attuale, ma più intelligente e autorevole
nel governo dei processi. Porterà ancora il nome antico Atac proprio
per sottolineare la continuità con la funzione pubblica del
servizio, ma in effetti sarà un soggetto completamente diverso
dall'attuale.
Prima
di tutto dovrà ampliare la scala di intervento diventando l'agenzia
della nuova Città metropolitana per supportare anche i comuni
dell'hinterland e per regolare tutte le reti - urbane, extraurbane e
ferroviarie - dell'area vasta. Si dovrà concordare con la Pisana una
cooperazione con l'agenzia regionale al fine di realizzare
un'integrazione comprensiva anche dei servizi del Cotral e di
Trenitalia.
La
sfida più difficile consiste nella riconversione professionale della
nuova Atac come regolatore e non più come produttore. Comporta un
cambiamento profondo nell'organizzazione, nelle competenze e perfino
nelle mentalità. Occorre recuperare anche specializzazioni ormai
disperse, degradate o addirittura dimenticate. Vediamo in sintesi le
principali innovazioni che sono necessarie.
Prima
di tutto si devono ricondurre all'interno della nuova Atac tutte le
attuali agenzie comunali:
l'Agenzia
comunale della Mobilità
che si occupa della pianificazione e dei servizi per la mobilità
privata e pubblica, in particolare delle linee, le frequenze, gli
orari e gli standard di servizio;
Roma
Metropolitane
specializzata nella progettazione e nell'appalto delle infrastrutture
su ferro, in particolare la metro C. Non si capisce in base a quale
razionalità il Comune debba possedere tre diverse strutture che si
occupano di mobilità. Oltretutto, l'Amministrazione oggi gestisce
molto male i tre contratti di servizio: ha portato sull'orlo del
fallimento non solo Atac ma anche Roma Metropolitane e ha messo in
sofferenza finanziaria anche l'altra agenzia. L'unificazione
semplificherebbe le procedure, diminuirebbe i costi fissi delle
strutture e ridurrebbe i consigli di amministrazione. Nascerebbe una
potente struttura di ingegneria capace di progettare tutti gli
elementi della mobilità, dai piani di traffico, alle linee degli
autobus fino alle metropolitane.
Occorre
poi ricostituire la competenza ingegneristica dei mezzi di trasporto.
È andato disperso un sapere che in passato ha raggiunto livelli
elevati, dalla progettazione di veicoli tranviari come lo
Stanga
o il brevetto della
giostra
Urbinati
che consentiva lo snodo tra due casse tranviarie. Oggi è impensabile
progettare in casa mezzi di trasporto, ma l'azienda pubblica deve
avere una competenza specifica non inferiore a quella dei fornitori,
se non vuole subire le loro scelte. In questo assetto l'Atac sarebbe
in Italia la più grande stazione appaltante locale di autobus, tram
e treni. Dovrebbe dotarsi di una forte divisione ingegneristica per
gestire a proprio vantaggio gli acquisti e controllare la
manutenzione effettuata dai produttori del servizio.
Anche
i depositi devono rimanere di proprietà pubblica per essere
conferiti ai vincitori delle gare, come raccomanda anche
l'Autorità
di regolazione dei trasporti.
È una condizione essenziale per assicurare un'ampia
concorrenzialità. Se al contrario ogni privato che partecipa ai
bandi dovesse dotarsi di propri depositi, non semplici da reperire
nella conurbazione romana, si avrebbe una pesante restrizione
dell'accesso alle gare. Ciò significa che la nuova Atac dovrà
dotarsi anche di un settore altamente professionalizzato per la
gestione dei beni di proprietà e per lo sviluppo e l'ammodernamento
degli impianti.
C'è
poi il sistema tariffario, deliberato dagli organi comunali e gestito
dall'Atac con gravi carenze: cronica incapacità di colpire
l'evasione, ritardo tecnologico nelle modalità di pagamento e nella
logistica; ostilità verso l'integrazione tariffaria del Metrebus,
fino al punto che il piano industriale propone di tornare ai titoli
di viaggio esclusivamente urbani, costringendo i pendolari a pagare
di più per prendere diversi mezzi.
In
questo settore la nuova Atac deve cambiare mentalità e metodi. Le
tariffe devono essere gestite insieme a una moderna capacità di
comunicazione. È incredibile che l'azienda non sia ancora capace di
gestire adeguatamente il controllo satellitare dopo quasi un decennio
dall'installazione. Questa intollerabile deficienza impedisce al
Comune di verificare effettivamente la corrispondenza del livello
della produzione con le previsioni del contratto e fornisce
informazioni errate o incomplete agli utenti che consultano le
apposite app.
Non
solo comunicazione, ci vuole anche l'ascolto dei cittadini, mediante
vecchi e nuovi strumenti, dai social network, ai forum degli utenti,
al confronto nei municipi sul controllo e sulla pianificazione del
servizio. Dal coinvolgimento possono venire miglioramenti puntuali e
una riconquistata credibilità. I romani se ne intendono di
trasporti: sugli autobus si ascoltano discussioni molto competenti
sulle linee, le frequenze e perfino i turni di lavoro. Nelle città
europee i passeggeri leggono il giornale senza preoccuparsi dei
turni. Certo, la nostra competenza è cresciuta come difesa dalle
inefficienze, forse ne faremmo volentieri a meno, ma potrebbe essere
volta in positivo come contributo al miglioramento dei servizi.
Una
moderna agenzia non può occuparsi solo della rete degli autobus, ma
deve promuovere tutti i
servizi
innovativi
che vanno sviluppandosi con le nuove tecnologie; car e bike-sharing,
car-pooling, mobility manager, taxi mutiplo ecc. Si tratta di
iniziative gestite da operatori privati e non devono essere
irrigidite dalla burocrazia, però l'agenzia può svolgere una
funzione preziosa di supporto, di collaborazione e di integrazione
con il servizio pubblico.
Infine,
la nuova Atac dovrà acquisire una profonda competenza dei contratti
con i privati produttori del servizio. In essa convergono diverse
professionalità: capacità ingegneristica nel controllo degli
standard del servizio e della manutenzione delle infrastrutture,
attitudine regolativa nella definizione dei parametri di
competitività, supporto legale nel contenzioso contrattuale,
monitoraggio finanziario dei pagamenti e delle risorse. Formalmente
il titolare delle gare può essere la nuova Atac oppure il Comune;
nel secondo caso l'agenzia svolge il supporto nella gestione delle
gare e nel controllo dei contratti comportandosi come un dipartimento
comunale.
La
gestione di una quindicina di lotti di produzione dalla gomma al
ferro richiede una tecnostruttura di altissima efficienza tecnica e
giuridica. È bene sapere che tale obiettivo è molto lontano dalla
situazione attuale. Occorre formare una competenza che oggi non
esiste. Si può imparare molto dagli errori commessi dalla coppia
Atac-Comune nella gestione del contratto con Roma TPL, il privato che
gestisce da venti anni la rete periferica. Si trascina da tempo un
forte contenzioso che nessuno ha avuto la capacità di risolvere,
fino a rendere necessaria la mediazione in prefettura. Il Comune si è
rifiutato di pagare un addendum del contratto pur riconosciuto dalle
sentenze del Tribunale amministrativo. Il privato ha scaricato la
difficoltà finanziaria sui lavoratori ritardando il pagamento degli
stipendi. Sono cose inaccettabili, esempi da evitare in futuro: la
committenza pubblica deve essere severa nel controllo ma corretta nei
pagamenti. Il Comune avrebbe dovuto chiedere al privato di
costituirsi in una società unitaria, e non in un consorzio di
imprese - in alcuni casi molto piccole - che non ha la solidità e la
compattezza per gestire l'intero ciclo produttivo. Nonostante questi
problemi di relazione pubblico-privato, alcuni risultati operativi
sono stati invece positivi.
Se
consideriamo nel decennio la
perdita
di servizio rispetto a livello programmato,
un parametro rappresentativo della regolarità e della capacità
produttiva, l'Atac si è attestata tra il 6% e il 10% per sprofondare
al 15% nel 2017. Roma Tpl ha più che dimezzato la perdita
attestandosi sempre sotto il 3%, crollando al 6% nell'annus
horribilis. Ciò significa che la confusa gestione contrattuale con
il privato può pregiudicare i positivi risultati ottenuti dalla
liberalizzazione.
D'altronde,
se il Comune è inefficiente non è in grado neppure di far
funzionare il monopolio, anzi rischia di portare i libri in
tribunale, come si è visto. Nel dibattito su liberalizzazione e
monopolio, quindi, non si può usare a favore di una tesi o
dell'altra l'inefficienza del Comune, perché in entrambi i casi i
risultati positivi verranno solo se migliorerà l'amministrazione
pubblica.
Il
successo della liberalizzazione non è scontato. Tutto dipende dalla
capacità di creare una nuova Atac all'altezza del compito:
qualificare il carattere pubblico del servizio e diventare
protagonista dell'apertura alla concorrenza. Non è un obiettivo
semplice, ma certo è più facile rinnovare un'azienda dieci volte
più piccola dell'attuale, è più credibile creare un'agenzia
efficiente piuttosto che risanare un colosso produttivo di oltre
diecimila persone.
La
nuova Atac sarebbe l'occasione per il riscatto della tradizione di
servizio e di ingegneria pubblica, certo oggi molto degradata, ma che
nel corso del Novecento ha vissuto
momenti
di grande valore.
Il fondatore Giovanni Montemartini, il brillante riformista
socialista e il miglior assessore nella storia della città,
immaginava l'azienda pubblica come garanzia per i cittadini contro i
monopoli finanziari inglesi e belgi che si erano impossessati del
servizio a inizio secolo. Poi c'è stata una lunga decadenza fino
alla procedura fallimentare. L'azienda può uscire dalla crisi, ma
non come era prima, cambiando profondamente il suo assetto. Chiamarsi
ancora Atac significa sottolineare l'intenzione di ritrovare il
meglio di una lunga storia del servizio pubblico romano.
NO ALLA PRIVATIZZAZIONE
La
privatizzazione agisce invece sull'azienda così come è oggi, senza
la preventiva separazione tra servizio e produzione. Si apre ai
privati la partecipazione al capitale della società per azioni Atac
oppure si trasferisce la concessione del servizio a imprese private.
Questo approccio, a mio avviso, metterebbe a rischio il trasporto
pubblico romano. L'Atac non sarebbe più protagonista del processo,
ma diventerebbe oggetto della privatizzazione o vittima di una
liquidazione di fatto, secondo le due possibili modalità di gara che
vanno per la maggiore.
Con
la prima modalità, la gara cosiddetta a "doppio oggetto"
si seleziona l'operatore che migliora l’offerta del contratto di
servizio e acquista un determinato numero di azioni. Se la procedura
riguarda l’azienda nell’attuale assetto - cioè con la
commistione tra servizio e produzione - si consente in via di fatto
al privato di condizionare l'offerta di trasporto e di modificare a
proprio vantaggio la struttura dei costi e dei ricavi. Anche se
rimangono in capo al Comune le decisioni regolative, la loro
attuazione dipende dalle competenze e dalle strutture operative
dell’azienda in parte privatizzata. È molto probabile che ciò
consenta al privato di "catturare
il regolatore",
come è già avvenuto con il monopolista interamente pubblico.
Quando
i nuovi azionisti subentrano nelle vecchie aziende pubbliche, quasi
mai si dedicano al nocciolo duro dell'organizzazione del lavoro. Si
tratta infatti di un'opera faticosa, lunga e di risultato incerto che
il privato tende a eludere per ottenere vantaggi immediati e
quantificabili. Preferisce conservare l'inefficienza trovando il modo
di farla pagare al pubblico. Qualcosa del genere è accaduto anche
con i manager avvicendatisi in modo frenetico negli ultimi tempi e
spesso impegnati solo su operazioni finanziarie oppure su iniziative
mediatiche, piuttosto che nel difficile lavoro di riorganizzazione
dei processi produttivi.
L'approccio
privatistico è attratto dalla possibilità di gestire il monopolio a
proprio vantaggio. Gli azionisti privati tenderanno a risolvere la
crisi chiedendo al Comune di alzare le tariffe e tagliare le linee
invece di migliorare l'efficienza produttiva. Prima convinceranno i
rappresentanti del Comune con i quali collaborano nel consiglio di
amministrazione e poi insieme faranno pressioni sul sindaco perché
accetti la soluzione a loro più favorevole, che sarà presentata con
adeguate campagne mediatiche come la migliore. Il consociativismo
interno tra i manager di nomina pubblica e privata preparerà le
soluzioni da imporre all'autorità politica. Gli effetti negativi del
monopolio privato possono essere più gravi di quelli ben noti del
monopolio pubblico.
L'esperienza
condotta negli ultimi venti anni ha mostrato che il
difetto
intrinseco delle società miste
è la commistione di interessi tra pubblico e privato. Essa consente
alla politica di invadere la sfera tecnico-professionale e agli
imprenditori di condizionare l’interesse generale.
Basta
constatare, ad esempio, come in Acea i “partner industriali”
decidano quasi tutto, pur essendo azionisti di minoranza. E la
commistione pubblico-privata rende incomprensibili le decisioni.
L’emergenza idrica ha alimentato nell’opinione pubblica il
sospetto che gli investimenti sulla manutenzione degli acquedotti
siano diminuiti per aumentare i dividendi degli azionisti.
Ovviamente,
si può sostenere che in Atac, a differenza dell'Acea, l'azionista
privato sarebbe comunque vincolato al contratto di servizio e
dovrebbe rivendere le azioni alla scadenza della concessione. Ma in
senso contrario, l'azionista Atac potrebbe essere più disinvolto
rispetto a quello di Acea che è sottoposto al giudizio di mercato
essendo una società collocata in borsa.
La
privatizzazione sarebbe meno rischiosa se la gara a doppio oggetto
avvenisse a valle della separazione tra servizio e produzione e
riguardasse solo il contenitore societario che gestisce l’attività
industriale. In tal modo l’operatore economico non avrebbe la
possibilità di influire sulle reti e sulle tariffe. Però rimarrebbe
la dannosa promiscuità di interessi tra pubblico e privato nella
società mista: se il Comune come regolatore dovesse comminare
sanzioni per il mancato rispetto del contratto ne pagherebbe le
conseguenze come proprietario per la sua quota di azioni, in una
sgradevole confusione di ruoli e di interessi.
Il
secondo modo di fare le gare ai fini della privatizzazione consiste
nel mettere in competizione l'Atac con altre imprese private. È
l'approccio più banale e più diffuso, ma anche il più scorretto in
via di principio e nel caso romano anche il più dannoso. Si crea
infatti un grave conflitto di interessi in capo al Comune che deve
scegliere tra l'azienda di cui è azionista e altri soggetti
imprenditoriali. Due funzioni pubbliche - la regolazione e la
proprietà - entrano in una irresolubile contraddizione. In passato i
Comuni hanno spesso risolto il problema scrivendo bandi molto
favorevoli alla propria azienda, cioè facendo gare finte. Oggi non
sarebbe più possibile perché i capitolati "farlocchi" non
potrebbero superare il vaglio dell'Autorità dei trasporti,
dell'Autorità per la concorrenza e dell'Autorità anticorruzione.
Se
la gara fosse rigorosa, l'Atac probabilmente non sarebbe in grado di
vincerla, e di conseguenza verrebbe messa in liquidazione. Al suo
posto subentrerebbe un privato che gestirebbe non solo l'attività
industriale, ma influirebbe sulle funzioni regolative, come nello
scenario precedente della gara a doppio oggetto.
Le
due modalità di gara sopra descritte non sono intrinsecamente
negative, e anzi possono dare esiti positivi se applicate a valle
della separazione tra servizio e produzione. In tal caso però non si
tratterebbe più di una privatizzazione ma di una liberalizzazione.
La
differenza tra i due approcci è decisiva: nel primo caso il
monopolio pubblico rischia di trasformarsi in monopolio privato con
effetti negativi per l'interesse pubblico; nel secondo caso, invece,
il superamento strutturale del monopolio consente di gestire in modo
ottimale sia la produzione mediante la concorrenza sia il servizio
con una nuova agenzia pubblica.
Questo
era l'obiettivo della scissione societaria che portò alla fine degli
anni novanta alla creazione di tre nuove aziende: Trambus e Metro per
la produzione del trasporto rispettivamente su gomma e su ferro, e la
nuova Atac di circa mille dipendenti impegnati solo nelle attività
di regolazione e di gestione degli asset proprietari. Il programma
comportava due possibilità attuative: gara a doppio oggetto con
vendita del 100% delle azioni di Trambus e Metro, oppure gara tra le
due società pubbliche e le imprese private. Con tali soluzioni si
sarebbero evitate tutte le criticità di sui si è detto sopra. Nel
primo caso, l'azionista privato avrebbe avuto la responsabilità
totalitaria delle aziende di produzione, senza commistioni con il
pubblico e senza possibilità di influire sulla regolazione. Nel
secondo caso, l'insuccesso nelle gare non avrebbe messo in
liquidazione il patrimonio pubblico dell'Atac, ma avrebbe comportato
la liquidazione solo di Trambus e Metro con il trasferimento di ramo
d'azienda al privato e la piena garanzia per i lavoratori. Non a caso
questo ambizioso disegno venne concordato anche con le organizzazioni
sindacali in un protocollo di intesa sull'intera politica di
liberalizzazione del Comune di Roma.
Ciò
nonostante, nel 2009 Trambus e Metro furono riunificate con Atac. Fu
un segnale chiaro e ben compreso dal sistema consociativo aziendale:
era scampato il pericolo della liberalizzazione e si poteva tornare a
fare come prima e più di prima. Il ricostituito carrozzone nelle
mani di Alemanno ridusse il servizio, peggiorò la
produttività
per addetto
e dissipò le risorse nel disastro di Parentopoli. Non sarebbe potuto
accadere se nei primi anni duemila fosse stato attuato il progetto di
liberalizzazione.
L'OCCASIONE DEL
REFERENDUM
Il
3 giugno si terrà il referendum promosso dai radicali. Non ce ne
sarebbe bisogno in una città normale, poiché le gare sono una
scelta quasi obbligata. E invece è necessario perché la decisione
della sindaca Raggi di conservare il monopolio può essere rimossa
solo con una netta vittoria del SÌ. È bene che un ampio
schieramento democratico sostenga tale posizione accompagnandola con
un progetto di riforma dell'Atac e con una chiara opzione a favore
della liberalizzazione e contro la privatizzazione.
La
vittoria del NO, invece, manterrebbe la situazione attuale con tutti
i rischi e le criticità che possono anche far cadere il castello di
carte del concordato. Se si dovesse aprire uno scenario drammatico,
la giunta, presa dal panico, sarebbe costretta a svendere l'azienda,
senza avere più tempo per separare il servizio dalla produzione. La
privatizzazione a seguito di un'emergenza e senza un progetto di
riforma è purtroppo ricorrente nella vicenda italiana degli ultimi
venti anni. Non è difficile immaginare che molte lobbies
oggi lavorino per creare una drammatica emergenza, da cui ottenere
maggiori vantaggi. Solo a quel tempo i medici pietosi che finora
hanno accarezzato il monopolio si accorgeranno di aver contribuito al
disastro dell'azienda che a parole volevano salvare.
Il
referendum quindi è l'ultima occasione per migliorare il trasporto
romano. E soprattutto è un'opportunità per i cittadini di
partecipare alle decisioni sulla questione più importante di Roma.
La voce popolare è l'unica risorsa in grado di superare gli sterili
conservatorismi che hanno impedito finora la riforma dell'Atac.
LA RIFORMA DELLA RETE
Le
gare non sono la panacea di tutti i mali, anzi devono essere
accompagnate da un rilancio della politica della mobilità. La
concorrenza può risolvere il deficit di efficienza della produzione,
ma non si esce dalla crisi strutturale del servizio se non si risolve
il problema della rete.
Esso
è determinato da due cause, una amministrativa e l'altra
urbanistica. La prima dipende dall'ampio confine comunale che, a
differenza delle altre città, si estende nell'hinterland ben oltre
l'edificato. Gli insediamenti più esterni vengono coperti dal
servizio in modalità urbana come le linee centrali, ma dovrebbero
essere gestiti con la modalità del trasporto extraurbano.
Per fare un esempio,
Corcolle è una borgata collocata a 30 km dal Campidoglio e viene
servita dall'Atac con linee a passaggio casuale, mentre il vicino
comune di Tivoli è servito dal Cotral con passaggi a orario.
L'anomalia del confine comporta un'impropria applicazione del
trasporto urbano nell'hinterland.
La
causa urbanistica ha prodotto una rete molto estesa e costituita da
collegamenti a domanda debole in un territorio a bassa densità. È
il risultato di un continuo prolungamento di linee che si sono
aggiunte alla geometria di rete degli anni cinquanta senza
modificarne l'assetto, con l'eccezione di alcuni interventi parziali.
La lunga espansione è stata scandita da due salti di scala: il forte
potenziamento del servizio negli anni settanta andò a coprire i
nuovi insediamenti fino al Gra e comportò il passaggio da due a tre
cifre nella numerazione delle linee; l'ulteriore sviluppo oltre il
Gra dell'ultimo trentennio ha richiesto l'attivazione di una nuova
corona di linee, distinte con uno zero iniziale, in buona parte oggi
gestite da privati. In tal modo si è arrivati a produrre circa 300
linee fisse, gestite tutte nello stesso modo, senza alcuna differenza
tra il 64 che connette Termini con San Pietro e, ad esempio, la linea
024 che collega il paesino di Cesano a 32 km dal centro di Roma.
Questo
disegno di rete determina costi elevati per il Comune e servizi
inefficaci per i cittadini. È la conseguenza della disordinata
espansione urbanistica che ha consumato una grande estensione
territoriale disseminando insediamenti sparsi a bassa densità. Ogni
volta che si costruisce un nuovo quartiere isolato nell'Agro romano
si aumenta la
componente
urbanistica del costo
del servizio di trasporto.
C'è
scarsa consapevolezza di questo peso sempre crescente sul bilancio
comunale, ma è il più grave problema strutturale del trasporto
nella capitale. Per indicarne una misura basta un semplice confronto
tra Roma e Milano. Per servire un territorio molto ampio e poco denso
da noi occorre una dotazione
di rete -
intesa come il numero di km per abitante - del 38% maggiore rispetto
alla città ambrosiana. Ma tale sforzo produttivo produce un
risultato scarso per i cittadini che ottengono un'offerta
di posti
per km del 41% più bassa (dati Istat elaborati da Federico Tomassi).
Per semplificare si potrebbe dire che le paline sono tante, ma anche
per questo vi passano pochi autobus. Cioè, i mezzi vanno dappertutto
nel grande territorio comunale, assicurando l'accessibilità anche ai
quartieri più isolati e questo è un merito indiscutibile, ma in tal
modo riescono a dare ben poco agli utenti in termini di frequenze e
di posti disponibili. Sono percentuali impressionanti che dimostrano
quanto sia dispendiosa e inefficace la rete pubblica. La sua radicale
riforma dovrebbe quindi essere una priorità per la politica
comunale.
Ci
sono state solo due ristrutturazioni importanti, una in aumento e
l'altra in diminuzione di offerta.
La
prima fu realizzata alla fine degli anni novanta nel bacino
Salario-Nomentano-Oltreaniene e si basava su due innovazioni: a)
riserva di spazio urbano a favore degli autobus, non solo corsie
preferenziali, ma intere "strade
verdi",
secondo il modello sperimentato a viale Libia purtroppo smantellato
da Alemanno; b) gerarchia di rete con l'introduzione delle linee
Express più frequenti e veloci perché effettuano solo le fermate
più importanti accorciando i tempi delle lunghe percorrenze. In
realtà esse riprendono la modalità di gestione delle linee celeri
degli anni trenta. A volte le vere novità sono alle nostre spalle.
Con
la ristrutturazione si rafforzò la percorrenza sulle linee portanti
verso il centro e si resero più capillari gli spostamenti tra i
quartieri, invece di trattare tutte le linee allo stesso modo. La
convergenza tra riserva pubblica di strade e gerarchia di rete
produsse un forte aumento di offerta e di regolarità nell'intero
bacino. Il progetto doveva proseguire sugli altri quadranti urbani ma
fu abbandonato dalle successive amministrazioni.
Nel
2014 c'è stata un'altra importante ristrutturazione che, pur con
l'intento di ridurre l'offerta, ha ottenuto risultati positivi almeno
all'inizio. Le modifiche sono state di ampia portata: 48 linee
soppresse, 12 di nuova istituzione e un centinaio modificate o
potenziate. L'obiettivo era diminuire il servizio di 7,5 milioni di
Km per avvicinarlo alla minore capacità di produzione dell'Atac. Ciò
nonostante i passeggeri sono aumentati del 2% per effetto di una
migliore corrispondenza della rete rispetto alla struttura urbana.
L'anno successivo, però, l'azienda ha ridotto ulteriormente la
produzione, bruciando i vantaggi ottenuti e costringendo la giunta a
fermare la ristrutturazione. La vicenda insegna molte cose: il
ridisegno della rete presenta margini molto ampi di miglioramento del
servizio a costi inferiori; se l'operazione è condotta a ribasso per
assecondare la minore produzione dell'azienda si finisce per
diminuire ulteriormente l'offerta; solo se si libera la produzione
dai vincoli del monopolio, si può disegnare un'offerta meno costosa
ma più ricca per i cittadini.
Oggi,
con le tecnologie dell'infomobilità si può immaginare una riforma
di rete più radicale delle precedenti. Si tratta di mettere in
discussione non solo il disegno delle linee, ma anche la forma di
gestione e perfino il modo di fruizione del servizio. Sono quattro le
innovazioni fondamentali.
1.
Il punto critico è costituito dalle linee a bassissima domanda che
servono gli insediamenti isolati nell'Agro. È la parte più
inefficace e inefficiente del servizio, perché costringe gli utenti
a tempi di attesa inaccettabili, fino a un’ora, e scarica costi
insostenibili sull'azienda. Qui si deve compiere la svolta radicale
passando dalle attuali linee rigide a itinerari flessibili con
accesso a chiamata da parte degli utenti, come si verifica già nelle
esperienze
più avanzate
in Italia. I cittadini prenotano i propri spostamenti con il
cellulare, anche in tempo reale, e l'operatore adegua l'itinerario
secondo le richieste pervenute, offrendo un servizio puntuale con
mezzi più piccoli e confortevoli. I gestori potrebbero essere
tassisti e noleggiatori che si mettono insieme per fornire un
servizio collettivo di Taxi “2.0”, sulla base di una convenzione
comunale. Ancora meglio potrebbe svilupparsi il nuovo servizio se
fosse sostenuto da una riscrittura della normativa di settore, come
ho proposto in un apposito
disegno
di legge.
Secondo uno studio del Comune, su questi bacini si abbatterebbero i
tempi di attesa e si ridurrebbero i costi di Atac del 75%. I
trasporti di questa modalità 2.0 farebbero parte a pieno titolo del
servizio pubblico. L’utente pagherebbe normalmente il biglietto o
l’abbonamento e gli operatori verrebbero compensati da un sussidio
comunale finanziato con una parte del risparmio ottenuto con
l'eliminazione delle linee fisse. Si offrirebbe un'opportunità di
sviluppo agli operatori Taxi e NCC nella modalità innovativa del
taxi collettivo, che potrebbe essere estesa successivamente
a
tutta la città.
2.
Occorre gestire la rete extraurbana secondo le sue regole. I
quartieri periferici più esterni devono essere serviti secondo la
modalità Cotral, cioè con linee a orario predefinito. In diverse
occasioni si è chiesto ad Atac di adottare questa modalità, ma si è
sempre rivelata incapace di farlo. Nelle gare si dovrà verificare la
capacità dei privati di rispettare gli orari previsti alle paline,
utilizzando anche il controllo satellitare per informare l'utenza su
eventuali scostamenti.
3.
Le linee interquartiere e di adduzione al ferro hanno bisogno di una
revisione sulla base della metodologia già sperimentata nel 2014. Si
tratta di eliminare molte incongruenze e sovrapposizioni che si sono
create nella lunga espansione cumulativa della rete. L'integrazione
con le stazioni ferroviarie e delle metro deve essere non solo
spaziale ma anche temporale, mediante uno stretto coordinamento negli
orari dei treni e degli autobus. Su questa parte intermedia della
rete occorre un forte miglioramento dell'informazione all'utenza sui
tempi di passaggio dei mezzi. Alla fermata il cittadino deve poter
consultare le apposite app per sapere con sicurezza quando arriverà
l'autobus.
4.
Le linee Express vanno ripristinate e sviluppate. Oggi si è smarrita
la differenza e funzionano come tutte le altre linee. Invece devono
costituire gli assi portanti della rete con alti livelli di frequenza
e di capacità di trasporto. Se funzionano bene i grandi collegamenti
centro-periferia tutte le altre linee ne hanno un beneficio di
integrazione. Il rafforzamento delle linee Express non solo consente
di servire al meglio i flussi principali ma diffonde l'effetto rete
su tutto il territorio.
Queste
quattro modalità della rete sono purtroppo del tutto estranee
all'attuale gestione dell'Atac. Essa si organizza secondo le
abitudini e le convenienze interne che conducono inevitabilmente a
trattare tutte le linee nello stesso modo. Non solo non è mai
riuscita a gestire linee a orario, non ha mai realizzato i servizi a
chiamata, ha banalizzato le linee Express, ha esteso la modalità
urbana nell'area extra urbana.
Il
monopolio non solo produce inefficienza, ma impone modelli di
servizio calibrati sugli interessi corporativi e non sulle esigenze
collettive. La riforma della rete può essere attuata solo con la
liberalizzazione. I bandi di gara definiranno le caratteristiche del
servizio che deve essere differenziato a misura della straordinaria
complessità territoriale di Roma.
Infine,
la ristrutturazione della rete consente una migliore allocazione
delle risorse. Nella parte periferica con i servizi a domanda debole
e le linee a orario si offre un servizio di gran lunga migliore a
costi più bassi. I risparmi possono essere utilizzati per potenziare
le linee interquartiere e soprattutto le Express. La rete deve essere
riformata non per tagliare, anzi per aumentare l'offerta e per
convincere molti romani a lasciare l'automobile.
L'alleggerimento
del peso del trasporto sul bilancio comunale, che sarà comunque un
problema anche per il futuro, si dovrà ottenere operando sulle altre
due inefficienze, quella produttiva e quella infrastrutturale. La
riduzione del costo unitario di produzione che scaturisce dalla
liberalizzazione deve essere utilizzata per diminuire la spesa
corrente del contratto di servizio, creando così margini per
aumentare gli investimenti, dagli autobus alla cura del ferro, e
quindi migliorare ulteriormente l'efficienza del sistema. In tal modo
si inverte il circolo dissipativo dell'inefficienza monopolistica, la
quale aumenta la spesa corrente a discapito degli investimenti,
creando così nuovo debito per carenza tecnologica, come si è visto
nella mancata disponibilità degli autobus negli ultimi anni.
La
realizzazione delle metro e dei tram consentirà di eliminare
gradualmente almeno alcune linee Express, determinando nuovi risparmi
di gestione accompagnati a migliore qualità del servizio. Gli
autobus non dovranno più essere utilizzati per le linee portanti, ma
solo per gli spostamenti interquartiere e di adduzione al ferro. Solo
con la cura del ferro si potrà superare l'anomalia della rete romana
troppo dipendente dalla modalità autobus, il mezzo di trasporto più
costoso e meno efficace.
IL FERRO SENZA CURA
La
cura
del ferro,
tanto a lungo dimenticata e trascurata, oggi avrebbe le condizioni
più favorevoli per il suo rilancio. È merito del ministro Delrio
aver operato una svolta rispetto agli anni passati: con lo
smantellamento della berlusconiana Legge
obiettivo,
fonte di malaffare e ritardi dei cantieri, ha ristabilito il primato
della progettazione pubblica negli appalti; la costituzione del fondo
per le opere su ferro nelle grandi città rilancia la pianificazione
dei trasporti; il finanziamento di un programma pluriennale di
acquisti di treni, di tram e di autobus consente di ottenere
miglioramenti a breve nei servizi urbani. Per Roma è arrivata subito
la buona notizia, un grande finanziamento di 425 milioni di euro per
la manutenzione e la gestione delle metro A e B. Ora la giunta deve
spenderlo rapidamente per eliminare i gravi disagi nelle
metropolitane. Le incertezze del concordato già stanno causando
ritardi nell'impegno di queste risorse statali.
La
conclusione dell'Alta Velocità ha liberato tracce ferroviarie per il
trasporto regionale soprattutto nell'area meridionale, i Castelli e
la provincia pontina, che è anche la più popolosa. La giunta
Zingaretti ha sostenuto un forte miglioramento del servizio mediante
l'acquisto dei treni e l'adeguamento del contratto con Trenitalia. Si
può fare di più in futuro investendo sul potenziamento tecnologico
e sui nodi di scambio delle due direttrici per Cassino e per Formia,
che sono state liberate in gran parte dal traffico nazionale.
Soprattutto il potenziamento della linea tirrenica consentirebbe di
pedonalizzare il Parco dell'Appia antica migliorando l'accessibilità
via treno, con un collegamento di dieci minuti da Termini fino alla
stazioncina di Torricola da riqualificare all'uopo. Inoltre, la
ferrovia potenziata, e migliorata nella connessione con il tessuto
urbano di Latina, alleggerirebbe il traffico automobilistico sulla
via Pontina spostando sul mezzo pubblico la domanda della parte
meridionale della regione. Ciò consentirebbe di impostare un
progetto più leggero di riqualificazione della strada, al fine di
evitare ulteriori devastazioni ambientali in un territorio delicato e
complesso.
È
meritoria l'intenzione della giunta di rilanciare gli investimenti
sul tram. Anche se non sono ancora chiare le priorità e soprattutto
le conseguenze progettuali e operative degli annunci. È molto
positivo l'annuncio
della diramazione del tram 8 su viale Marconi.
L'opera amplierebbe il bacino del miglior tram romano, servirebbe un
quadrante molto popoloso e servito oggi in modo inadeguato,
migliorerebbe l'integrazione della rete tranviaria con la metro B a
San Paolo. Bisogna superare resistenze e difficoltà per
l'eliminazione della sosta in superficie a viale Marconi, ma la
consultazione già avviata con i cittadini lascia ben sperare. Se la
giunta porterà a termine l'intervento otterrà sicuramente un
successo nella politica della mobilità.
Desta
invece grande sconcerto l'altro annuncio di un nuovo tram da Piazza
Vittorio, lungo via Cavour con attestamento a Largo Corrado Ricci
davanti ai Fori imperiali. Si prevede poi in futuro, senza uno studio
di fattibilità, il prolungamento fino a Piazza Venezia con un
viadotto sospeso sopra l'area archeologica. È un progetto inutile,
sbagliato, rinunciatario e furbesco per i seguenti motivi:
1.
È inutile se si considerano le
motivazioni
presentate dalla giunta.
Non serve a nulla il moncherino tranviario da piazza Vittorio ai
Fori, poiché la stessa relazione è già coperta dall'attuale rete
tranviaria; infatti, dal Colosseo il tram risale via Labicana e
potrebbe svoltare a sinistra verso piazza Vittorio, utilizzando i
binari - oggi quasi in disuso - del tratto in salita di via Emanuele
Filiberto. L'opera si potrebbe giustificare meglio come collegamento
tra il bacino Prenestino e il centro storico. Ma quando sarà
realizzata la metro C non ci saranno più autobus su via dei Fori e
gli utenti del tram dovranno andare a piedi fino a Piazza Venezia.
Sarebbe, invece, molto più efficace l'integrazione a monte della
tranvia Prenestina con la linea C nella stazione di Pigneto. Si
potrebbe pensare a una riconversione del trenino Centocelle-Termini
in una moderna tranvia che confluirebbe in una tratta unica insieme
al tram Prenestino verso piazza Vittorio fino alla Stazione. In tal
modo si potrebbe liberare dai binari la via Giolitti che andrebbe
riqualificata come viale urbano ricco di luoghi culturali antichi e
moderni, dal Tempio di Minerva Medica, alla
scuola
dell'arte della Medaglia,
al teatro Ambra Jovinelli.
2.
È un'opera sbagliata perché mette in sofferenza la viabilità di
bordo della ZTL su via Cavour. C'è una buona regola di ingegneria
della mobilità che può essere compresa anche dai non esperti.
Quando si chiude una zona centrale bisogna lasciare libero il
perimetro perché viene interessato da un aumento dei flussi. Nel
caso specifico, la meritoria decisione di Marino di eliminare le
automobili da via dei Fori Imperiali ha aumentato i flussi sulla
direttrice via Cavour-via Annibaldi. Fu un intervento frettoloso e
realizzato solo con la segnaletica, ma si potrebbe migliorare tutta
la viabilità del quadrante con piccoli interventi strutturali sulle
sedi stradali, a cominciare da via Salvi. Comunque, se in futuro si
decidesse - come sarebbe necessario - di accentuare la chiusura della
Ztl - ampliando l'orario del divieto e riducendo i permessi - si
avrebbe un ulteriore appesantimento di via Cavour. Insomma, questa
strada non deve essere ridotta da un impianto tranviario perché è
necessaria alla chiusura al traffico di tutta l'area centrale. Oppure
l'altra possibilità sarebbe ampliare la Ztl oltre via Cavour fino
alla circonvallazione di via Amba Aradam, ma di questo ambizioso
progetto non c'è traccia oggi nell'agenda del Comune.
3.
È una pianificazione rinunciataria perché tende a vanificare la
strategia basata sull'asse tranviario Termini, via Nazionale, San
Pietro, via Aurelia.
Quando
fu realizzato il tram 8 si pianificò il suo prolungamento su via
Nazionale fino a Piazza dei Cinquecento, fino alla connessione con il
capolinea delle attuali linee orientali, come un grande passante
urbano da Monteverde al Prenestino. Questa pianificazione formalmente
non viene cancellata, ma di fatto è sostituita dal nuovo tracciato
proposto, senza un confronto analitico tra le due ipotesi. Eppure,
per valutare gli effetti di entrambe bastano alcune semplici
considerazioni.
Gran
parte degli utenti del tram 8, ancora più numerosi con la
diramazione a viale Marconi, arrivando a Piazza Venezia vorrebbero
proseguire per Termini, come hanno dimostrato tutti gli studi di
mobilità ed è facilmente comprensibile dal senso comune. Nella
prima ipotesi la connessione con la stazione avviene per la via più
breve e diretta di via Nazionale; nella seconda ipotesi invece la
linea allungherebbe il tragitto su via Cavour per poi arrivare a
piazza Vittorio e dirigersi alla stazione in sovrapposizione con il
tratto finale, già al massimo carico, della linea Prenestina.
Oppure, sarebbe meglio non passare da Piazza Vittorio e procedere per
via Cavour direttamente a Termini, ma questa ipotesi non è
considerata dal progetto comunale.
Il
tracciato tranviario su via Nazionale consentirebbe di eliminare il
più grande flusso di autobus dell'intera città, realizzando un
trasporto meno inquinante, con maggiore comfort e regolarità, e
costi di gestione inferiori. Nell'ipotesi di via Cavour, invece, non
ci sarebbe proprio nulla da sostituire perché oggi non esiste
neppure una linea di autobus tra piazza Venezia e piazza Vittorio.
Ciò significa che verrebbe usata inutilmente la tecnologia
tranviaria, che serve proprio a eliminare gli autobus nelle
direttrici di maggiore carico. Sarebbe davvero uno spreco investire
su una nuova infrastruttura senza risolvere lo stato di degrado
permanente di via Nazionale. Forse ci siamo abituati e non ci
rendiamo conto che in nessuna città del mondo l'asse centrale è
sovraccaricato da alcune centinaia di autobus al giorno. Invece, si
dovrebbe eliminare il traffico pubblico e privato su gomma
sull'intero asse da Termini a S. Pietro, creando la condizione
strutturale per una vasta pedonalizzazione del Centro Storico.
Sarebbe l'occasione per
"Rifare
l'Ottocento",
ripensando l'incerta haussmanizzazione con un nuovo boulevard
trampedonale aperto sui vicoli della vecchia Roma.
4.
Furbesca è poi l'intenzione di cancellare quaranta anni di dibattito
sul "Progetto Fori", facendo finta di niente, come quel
tale che scrive su un muro e si allontana fischiettando. Ci sono
sempre stati tanti oppositori della grande idea di Petroselli,
Cederna, Benevolo, Insolera e La Regina di eliminare lo stradone
costruito dal fascismo. Per decenni l'argomento contrario è stato
che non si potesse eliminare il traffico automobilistico, perché
altrimenti sarebbe venuta l'apocalisse. Come si è detto, il sindaco
Marino, il giorno prima di essere defenestrato dal suo partito con le
firme dal notaio, prese la decisione di eliminare le automobili
dall'intera area archeologica, purtroppo accompagnata dalla infausta
demolizione di via Alessandrina. La perdita dell'argomento contrario
ha disorientato gli oppositori, che però in futuro potranno
aggrapparsi a un nuovo impedimento: lo stradone non si può eliminare
perché deve passare il tram di via Cavour.
Non
credo sia tanto facile costruire una grande struttura su ferro
sospesa in viadotto sopra l'area archeologica, e non pare che siano
stati elaborati studi di fattibilità. Probabilmente il tram rimarrà
attestato su Largo Corrado Ricci come un moncherino senza
destinazione, e il prolungamento a piazza Venezia non sarà mai
realizzato, ma funzionerà perfettamente come alibi per impedire in
futuro l'eliminazione di via dei Fori.
Questa,
invece, renderebbe possibili due affascinanti opere di archeologia
urbana: il tratto da Largo Corrado Ricci a via Labicana potrebbe
diventare la grande piazza del Colosseo, un luogo di incontro dei
cittadini tra loro e con la storia, il centro degli eventi civili, la
piazza
del mondo;
lo smantellamento del tratto verso piazza Venezia consentirebbe di
utilizzare gli antichi Fori di Traiano, Augusto e Cesare come le
piazze della vita quotidiana della città, connesse a una rete di
itinerari pedonali del Centro Storico.
L'ambizioso
obiettivo oggi diventa possibile proprio perché è in fase di
realizzazione la condizione strutturale prevista dal progetto di
Leonardo Benevolo: la metro C.
L'opera
è stata portata fuori binario a causa dell'inserimento nella Legge
obiettivo, che ha conferito molti poteri ai costruttori privati,
indebolendo i controlli pubblici. Le gravi vicende della gestione
dell'appalto hanno alimentato il pessimismo. Rassegnarsi a non
proseguire la metro significherebbe il più grande regalo alla
mala-gestione. Si dimostrerebbe che le opere si possono fare solo
male. E invece si devono realizzare bene, come ad esempio si è fatto
a Napoli, controllando i costi ed elevando la qualità progettuale.
Il vincolo archeologico può diventare un'opportunità, è possibile
riportare alla luce reperti preziosi - come si è già realizzato
nella stazione di S.Giovanni. Nella stazione di S. Andrea della Valle
è possibile rendere visibili i reperti del teatro di Pompeo, uno dei
più prestigiosi monumenti antichi. Invece, con le modifiche
progettuali apportate ai tempi di Alemanno, si pretendeva di
realizzare le stazioni con scavi a cielo aperto che avrebbero
devastato lo strato archeologico. Per questo motivo sono poi state
dichiarate infattibili, ma sono realizzabili se si torna al progetto
originario - come
ha
ricordato di recente Adriano La Regina
- che prevedeva stazioni profonde all'interno delle gallerie.
Anche
su questo tema preoccupa la paralisi decisionale della giunta.
Dovrebbe per prima cosa avviare la revisione progettuale, correggendo
gli errori della gestione Alemanno, e ripartire con un nuovo appalto
del tratto del Centro Storico, fino a San Pietro e poi alla
Farnesina. Il Ministero ha dichiarato la disponibilità a proseguire
l'opera e ha predisposto un finanziamento per la revisione
progettuale, non ancora utilizzato dalla giunta a causa delle sue
incertezze amministrative. Il tempo stringe: a fine anno la talpa che
viene da San Giovanni arriverà al Colosseo e poi, come previsto dal
contratto, proseguirà per un breve tratto fermandosi proprio sotto
il Foro di Traiano. Se non si prende alcuna decisione
la
talpa sarà abbandonata in profondità
perché sarebbe quasi impossibile e comunque costoso tirarla fuori.
Se, invece, si prende la decisione di proseguire la metro a San
Pietro è ragionevole portare la talpa a piazza Venezia, prima della
conclusione del cantiere.
Incombono
due pericoli per il Foro di Traiano: lasciare la talpa sotto le sue
fondamenta a causa dell'incapacità decisionale e costruire davanti
un viadotto tranviario a causa della pianificazione sbagliata. Invece
della cura
del ferro
si rischia di realizzare il ferro
senza cura.
Quel luogo è stato teatro di trionfi e di decadenze, di potenza e di
distruzione, di splendore e di calamità. Nel succedersi delle
diverse vicende, quelle negative non meno di quelle positive hanno
contribuito a elaborare il fascino dell'opera storica. Le sciagure
del passato - i terremoti, le invasioni e le spoliazioni - avevano
pur sempre delle giustificazioni naturali o storiche. Gli errori dei
giorni nostri, invece, rischiano di essere privi di senso, senza
neppure l'aura tragica dei grandi eventi, ma solo con la mestizia
dell'insipienza.
Non
possiamo lasciare in eredità alle generazioni successive due grandi
impianti di ferro sotto e davanti la maestosa piazza disegnata da
Apollodoro di Damasco, il più grande architetto del suo tempo.