Parlando del favoleggiato Piano Calenda per il rilancio di Roma, ovvero della serie di provvedimenti messi insieme dal Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) per portare investimenti nella capitale, bisogna partire da due premesse.
La prima premessa è che quando parliamo di 2 miliardi di investimenti sembra che parliamo di chissà quale cifra. In realtà, tenuto conto il bilancio, la stazza e anche il depresso pil annuo che cuba la città, stiamo parlando di una cifretta incapace di spostare realmente le cose, tanto più se spalmata in annu e anni. 2 miliardi, tanto per capirci, sono poco più dell’investimento che era previsto a Tor di Valle con la trasformazione immobiliare che comprendeva lo stadio della Roma. Sarebbe bastato che una amministrazione di lestofanti non avesse bloccato l’ottimo progetto messo in campo da Giovanni Caudo durante gli anni della Giunta Marino e avremmo avuto la stessa quota di investimenti. Senza chiacchiere, senza finti litigi tra ministro e sindaca, senza giochi di ruolo e gioco delle parti. E soprattutto senza esborso di denari pubblici (soldi dei contribuenti di Gorizia e di Trieste, di Biella e di Lecce, tutti gettati nel buco nero di Roma), ma esclusivamente privati.
La seconda premessa è che seppur volessimo considerare significativo l’ammontare del piano, si tratterebbe comunque di un provvedimento fragilissimo, sub iudice delle prossime elezioni, destinato a vacillare e forse a cadere visto il periodo di feroce campagna elettorale che ci aspetta e visto il certo cambiamento di quadro politico a Palazzo Chigi e dunque in tutti i dicasteri.
Tutto ciò premesso prendiamo la cosa sul serio e ne parliamo come se fosse una cosa davvero cocreta. E moduliamo le nostre critiche, anzi sostanzialmente la nostra unica critica, assumendo che questo piano andrà in porto.
Quale è la nostra unica critica? La visione distorta della città. Carlo Calenda e il suo team hanno prodotto settimane fa un eccellente documento di analisi della disperata situazione della Capitale. Hanno perfettamente capito che siamo agli sgoccioli e che le pressoché inesistenti chance di risollevare la città stanno esaurendosi e che la situazione si fa pericolosa non solo economicamente e politicamente parlando, ma anche socialmente e in termini di ordine pubblico. Roma è una polveriera pronta a generare violenza, un laboratorio antropologico dove si stanno producendo cittadini privi di dignità, pronti a tutto, aggressivi, autolesionisti. Un qualcosa che non ha paragoni e raffronti a livello nazionale e men che meno internazionale.
Come reagire? Calenda risponde che - da una parte sollecitando e dall’altra tendendo la mano a Comune e Regione - bisogna aumentare gli stanziamenti sulla città. Individua insomma una città sottofinanziata, e probabilmente ha ragione, e immagina che per finanziarla serva del denaro dall’estero. Denaro pubblico, drenato a tutti i contribuenti italiani e investito in un contesto di illegalità, inefficienza, corruzione, racket, mafia. In un contesto ingovernato e ingovernabile.
Secondo noi così non si risolvono i problemi bensì se ne generano di nuovi. Ecco la visione distorta della città, ecco la mancata osservazione della realtà: Roma non ha bisogno di soldi, ha solo bisogno che i soldi che già ci sono, e sono tanti, prendano la strada corretta. Escano dalle saccocce dei furfanti e entrino nelle casse di chi gestisce i servizi pubblici ad esempio, o nei portafogli dell'economia sana, pulita, internazionale.
Calenda non ha ben compreso che il punto non è trovare 100 milioni per comprare autobus Atac, il punto semmai è recuperare i 100 milioni all’anno (all’anno!!!) di evasione dei ticket, anche perché una azione simile non solo genera cash vero ma combatte l'inciviltà diffusa (se al mattino ti obbligo a pagare il bus ti svegli sentendoti attorno una città che non è terra da depredare); il punto è valorizzare i cespiti immobiliari Atac pregiatissimi ma abbandonati, che valgono anche loro centinaia di milioni.
Il punto non è finanziare le municipalizzate, bensì renderle efficienti, fare in modo che chi lavora bene venga valorizzato e i tantissimi che lavorano male licenziati in tronco. Il punto non è trovare i soldi per la manutenzione delle strade andandoli a chiedere ai cittadini di Bologna o di Ancona che versano le loro tasse allo stato, il punto è capire che il mondo delle bancarelle a Roma versa al Comune 7 milioni l’anno mentre ne potrebbe cubare 90; capire che il mondo dei cartelloni pubblicitari versa al Comune 20 milioni quando il settore è valutato 80; capire che solo facendo pagare il giusto a chi mette tavolini fuori al proprio ristorante (e che deve poterlo fare con maggiore facilità nell’ambito di una semplificazione normativa radicale e profonda) si potrebbe risanare mezzo debito pubblico.
Per tacere poi dello sviluppo immobiliare. Ex Fiera di Roma ferma, Tor di Valle ferma, Torri dell’Eur ferme, ferma perfino la sistemazione di superficie del parking di Via Giulia perché nessuno si piglia la responsabilità di mettere una firma. E se si abbatte un palazzo irrilevante sulla Salaria per sostituirlo con un edificio nuovo si mobilita mezza città. Questa mentalità, questo atteggiamento, queste tare mentali costano alla città in termini direttamente economici molto più dei 2 miliardi spot che arriverebbero in ossequio al piano.
Roma ha in se stessa, in questo momento, le risorse necessarie per sviluppare, per fare investimenti, per trasformarsi. . Non occorrono dunque nuove risorse ma occorre profonda semplificazione burocratica, cambiamento radicale della classe amministrativa (o sostituzione di persone o cambiamento totale di mentalità delle persone che già ci sono), commissariamento lungo. Ad oggi queste risorse l’amministrazione rinunzia ad andarle a prendere, preferisce lasciarle nelle tasche della peggiore imprenditoria europea dei bancarellari, degli ambulanti, dei tassinari, dei balneari, delle dittuncole di manutenzione stradale, dei pessimi esercenti, dei mutandari, dei cartellonari. Queste realtà portano un sacco di voti e in cambio vogliono un sacco di soldi. Sono questi potentati che privano la città di ossigeno. In questo quadro i soldi di Calenda farebbero la stessa identica fine: in larga parte nelle tasche dell’imprenditoria alla romana.
Solo gestendo in maniera imprenditorialmente sana un bene straordinario come i suoi arenili, le sue splendide spiagge, le sue dune, i suoi lungomare Roma potrebbe generare annualmente economie 5 volte tanto quelle del piano Calenda. Basterebbe solo sistemare il mare. E poi ci sono cento altre cose così: business abbandonati da chi amministra per favorire orde di speculatori che succhiano sangue alla città minuto dopo minuto. Vogliono mettere in circolo nuovo sangue, senza nessunissima azione su chi a vario titolo e a vario spettro succhia. Dalla signora che non fa il biglietto sul tram su su fino al palazzinaro che lucra sui suoi pessimi edifici forte di una città che pur di favorirlo artatamente ha rinunciato a modernizzare le sue architetture e la sua urbanistica.